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il bar che non c'è

Il racconto di P.

Non mi piacciono le domande. Non che le trovi invasive ma credo che ognuno dovrebbe poter parlare quando gli va. Una domanda è una richiesta di tempo. Te me ne chiedi tre.

 

Ne passo molto, di tempo, in questa piazza. Non che la ami ma sai com’è… ci si affeziona. Non è amore, non è indifferenza. È la cornice stanca di molti ricordi. Come quando il comune tagliò gli alberi perché diceva che erano malati. Che significa malati? Non si curano gli alberi?

 

Passo di qui ogni giorno.

Vivendo qui dietro.

Per bere due o tre birre che qui costano meno.

 

Ne vedo di cose, io. Anche quelle che non dovrebbero esser viste ma che nessuno si preoccupa di nascondere. Di notte ma non solo.

Vedo il sole, ad esempio, che attraversa il cielo; conosco dove cade l’ombra in ogni stagione dell’anno, ad ogni ora. E posso vedere gli esseri umani spostarsi lungo la piazza, attraverso la piazza, ora alla ricerca del fresco e, poco dopo (o a quello che a me sembra un piccolo lasso di tempo), di un raggio di sole che scalda le mattine d’inverno.

 

Non trovate divertente che difronte ad una stazione, che è un luogo di partenze e arrivi, si trovi così tanta gente che non sa dove andare?

Non sono tutti uguali, ma urlano troppo.

Eppure questo dovrebbe essere il benvenuto di questa città.

Ed invece? È tutto buio.

Certo, se guardi lontano, oltre… oltre. Vedi le luci.

Le luci di Piazza della Vittoria, che pare un carrozzone.

“Ogni piazza, alla fine, ha le su beghe”.

Come le panchine.

Quelle bruciano il culo d’estate e te lo ghiacciano d’inverno.

Queste c’hanno i braccioli all’ingiù che sembra ti chiedano di andartene.

 

Quelle panchine che parlano sempre lingue lontane.

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