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Il racconto di S

Racconto di R. (e di S.)

Il mio ufficio è sempre in ombra.

Nella sala d’attesa poche sedute e nessuna rivista che tanto, si sa, sarebbero comunque già vecchie.
S. talvolta mi viene a trovare ed io non lo faccio attendere. 
Ho i miei impegni, i miei appuntamenti, come tutti. Ma ho sempre tempo per lui.
S. mi viene a trovare spesso, ma non spesso quanto dovrebbe. O vorrebbe.
Faccio sempre confusione tra ciò che voglio o devo fare e spesso finisco per non fare né l’uno né l’altro. Forse è per questo che se mi chiedi cosa faccio in questa piazza ti dico che ci vivo.
Senza averlo voluto, senza doverlo fare.
È così, in effetti. È il luogo dove vengo quando mi sveglio, dove sai di potermi trovare, dove do gli appuntamenti. Come se fosse un ufficio, appunto, pur senza essere il mio.
S. è un mio amico. Viene qui quando gli servono due soldi per “il vino che fa girare la testa”. Non sono certo io a poter giudicare ma per come vedo il mondo un amico non dà consigli ma ti è accanto per quello che per lui è un bisogno.
Ha due gemelli, S. Due gemelli a cui io non so cosa augurare.
Forse sono a corto di desideri. E credimi, ne ho avuti, prima di arrivare qui dalla Germania, ne avevo più di quanti ne potessi portare.
Succedono un sacco di cose strane qui, in questo ufficio. Ma non ne ricordo nessuna.
Anzi, ricordo quando morì l’indiano fuori dalla stazione. E per l’appunto io non c’ero.
Sono ricordi di altri, ricordi condivisi e mai appartenuti.
È come se fossi a corto anche di ricordi.
Ah. S. ha dormito lì pochi giorni prima, ma non gli piace raccontarlo.
Sai, sono cose che si fanno.
Ma non c’è bisogno di dirlo.

 

“Avanti il prossimo”.

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